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Il drop-out negli studenti universitari

Il drop out universitario, ovvero l’interruzione/abbandono del percorso di studi, è un fenomeno complesso, al cui strutturarsi concorrono una molteplicità di cause, il cui peso specifico va apprezzato di volta in volta. L’abbandono affonda spesso le sue radici in un percorso scolastico/formativo segnato dall’insuccesso e da un rapporto conflittuale con l’istituzione formativa, che determina lo strutturarsi di atteggiamenti negativi e di rifiuto nei confronti dell’esperienza universitaria, percepita come frustrante e minacciosa. Per una corretta analisi e comprensione degli abbandoni è, tuttavia, necessario far interagire le determinanti interne al percorso universitario con le variabili  legate alla dimensione individuale ed al contesto relazionale e socio-economico-culturale di appartenenza del soggetto in questione.
Ricerche empiriche hanno dimostrato che fattori di natura personale possono mediare il progressivo disinvestimento emotivo sul sistema formativo: ad esempio, ragazzi che sperimentano una caduta nei livelli di autostima a seguito di basse performance scolastiche possono reagire allentando difensivamente i loro legami con la scuola/università, percepita come fonte di frustrazione narcisistica.
Esistono, però, anche dei fattori familiari che possono favorire l’incidenza degli abbandoni. Possono, infatti, verificarsi delle interruzioni di frequenza quando la decisione di frequentare l’università deriva principalmente da una forzatura dei genitori che vogliono avere un figlio laureato a tutti i costi, senza lasciarlo libero di esprimere i propri sogni, desideri ed ambizioni. In tal modo, il giovane studente finisce con il sentirsi caricato emotivamente dalle aspettative altrui, che non fanno altro che generargli ansia e confusione. In questi casi chi lascia l’università soffre più nel comunicare la sua decisione ai genitori, al punto di volerla nascondere, che non per gli effetti della rinuncia su se stesso.
La complessità del drop out riguarda anche il modo in cui esso si manifesta, per cui non sempre “dispersione” è sinonimo di interruzione di frequenza. Eugenia Pelanda propone di indicare con l’espressione “abbandono scolastico” non solo l’agito che porta a lasciare la scuola, ma anche tutti gli atteggiamenti che segnalano un disinvestimento emotivo dalla scuola e dall’apprendimento: “Nel primo gruppo rientrano tutte le manifestazioni che comportano un’interruzione degli studi come risultato o dell’impossibilità a proseguire a causa dei ripetuti fallimenti sul piano del rendimento o di un rifiuto nei confronti di una realtà eccessivamente emotigena. Con lo stesso termine ci si può però anche riferire ad altri tipi di disagio che non hanno un corrispettivo nel concreto così evidente, ma che sono un po’ camuffati, un po’ nascosti, a volte difficilmente individuabili. In questi casi non si verifica un vero e proprio abbandono della scuola; il ragazzo continua a frequentarla, magari studia anche, ma il rendimento è scarso ed è accompagnato da un’altrettanto scarsa fiducia nelle proprie possibilità e dall’assenza di piacere nell’usare il proprio pensiero, nell’apprendere. In entrambi i casi l’abbandono scolastico costituisce il segnale di un disagio sottostante che può presentarsi per la prima volta in adolescenza, ma che può essere anche il prolungamento di difficoltà già presenti in modo nascosto precedentemente”.
Dunque, volendo leggere da una prospettiva interpretativa il fenomeno drop-out, non solo si deve ampliare l’osservazione in senso temporale considerando i precedenti che hanno prodotto l’abbandono, ma è necessario sondare anche i vissuti dei giovani, la percezione che essi hanno della scuola/università come luogo della loro formazione, gli investimenti (o disinvestimenti) affettivi e cognitivi che sostanziano la loro rappresentazione mentale dell’istituzione scolastica e/o formativa ed il peso delle aspettative familiari nelle loro scelte.
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